SOTTO IL FARO NON C’È LUCE*

 

di

Remo Bodei

 

Proust condivide della cultura francese di fine secolo – Taine, Ribot, Janet, Binet, i médecins-philosophes, gli psicopatologi – l'idea che noi siamo plurimi, che non esiste un'anima unica, semplice e perciò stesso indistruttibile e immortale, ma una formazione complessa di io che si succedono o possono coesistere fra loro; per cui durante l'arco della nostra esistenza noi, come dice nella Fuggitiva, siamo provvisti di tanti "io di ricambio" che abbandoniamo continuamente.1

Come è noto, c'è in Proust l'idea di un io che è associato alla volontà e che, come diceva Bergson (anche se non bisogna ridurre la Recherche a un romanzo bergsoniano), è un io che fa come quei sarti di una volta, che col gessetto segnano sulla stoffa la linea su cui passerà la forbice dell'azione. Un io tutto proiettato in avanti, che vive nel presente ed è orientato all'azione, un io che espianta tutti gli io del passato, sebbene ognuno abbia la possibilità di rinascere attraverso quelle famose resurrezioni della memoria involontaria che rinvengono gli io abbandonati, i quali esistono proprio perché non sono stati funzionali allo sviluppo dell'azione dell'io attualmente egemone. Questi io esistono perché vanno a toccare aspetti marginali, come il riflesso della luce in una sera d'estate sul muro di un giardino di un ristorante, qualcosa quindi di inutile e di inessenziale, che però, una volta riscoperto, in quanto protetto paradossalmente dalla teca dell'oblio, ci fa riscoprire qualcosa che non tramonta. L'io dominante, quello sottoposto all'azione, è un io che ci fa vivere nel presente ma proiettati nel futuro e, insieme, che rincorre il tempo della caducità. La riscoperta di questi io sfuggiti alla voracità distruttiva del tempo nei famosi episodi relativi alla memoria involontaria (non solo quello della madeleine, ma anche dell’allacciamento delle scarpe di Balbec, del cortile dei Guermantes, del Battistero di S. Marco) attribuisce all'io un aroma di eternità, di durata. Attraverso un arco voltaico mentale, all’improvviso l'io del presente si congiunge con l'io del passato, mostrando che qualcosa che si sottrae alla forza del tempo.

Nella Fuggitiva l’"io luttuoso" sorto nel Narratore dopo la morte di Albertine viene abbandonato, allorché ne comincia ormai a parlare senza un particolare pathos: "il nuovo essere che avrebbe sopportato facilmente di vivere senza Albertine aveva già fatto la sua comparsa in me, dal momento che, in casa di Madame de Guermantes, avevo potuto parlare di lei con parole accorate, ma senza sofferenza profonda. Il possibile sopraggiungere di questi nuovi io, il cui nome sarebbe stato diverso dal precedente, mi aveva sempre spaventato, a causa della loro indifferenza verso ciò che amavo"2.

L'io luttuoso, quella costellazione psichica di eventi, quel modo di guardare se stessi e il proprio passato che è legato alla morte di Albertine, viene abbandonato, e la natura, il destino ci offre "un io di ricambio, uno dei tanti che il destino tiene in serbo per noi", dai quali ci distacchiamo "con una tenerezza di seconda mano", dice Proust, come quando un "vedovo" dà l'incarico a "un amico" di raccogliere le condoglianze, mentre lui singhiozza nella camera da letto dove c'è ancora la moglie3. Il nostro io vecchio, luttuoso, viene abbandonato e in questo modo ci distacchiamo da lui e questi io di ricambio che il destino ci offre sono numerosi e passano. Passano così come "ogni tanto – dice Proust di un suo personaggio – l'io di un antenato […] passa come un'eclisse sul momento nel volto di ciascuno"4.

Il nuovo io che scaturisce dal vecchio in un certo modo si conserva in noi e viene piano piano abbandonato. Siamo come un corollaire à polypier, una "colonia di polipi", quei polipi che avevano rappresentato per gli autori a cui allude anche Proust, cioè Espinas e Laforgue (quest’ultimo ne aveva trattato in una ballata5), il modello della personalità plurima, nato dalla citologia e poi impostosi nella fisiologia e nella zoologia. La colonia di polipi corallini in cui, toccandone uno, tutti gli altri si chiudono, costituisce l'esempio di una pluralità di elementi collegati misteriosamente tra loro. Ne parla nel Tempo ritrovato: "un polipaio il cui occhio, organo indipendente sebbene associato, se avverte della polvere sbatte senza bisogno del comando dell'intelligenza, il cui intestino parassita nascosto, addirittura si infetta senza che l'intelligenza lo venga a sapere, e parallelamente per l'anima, ma anche nella durata della vita, come un succedersi di io giustapposti ma distinti, destinati a morire l'uno dopo l'altro o magari ad alternarsi fra loro, come quelli che a Combray si sostitivano per me l'uno all'altro quando veniva la sera"6. Il nostro io come un polipaio, come una colonia di polipi, di ciascuno dei quali è cosciente soltanto ogni volta e separatamente. E appunto tratta gli altri, quando non li dimentica, con tenerezza di seconda mano.

È il caso famoso dell'episodio di Balbec, in cui al Narratore stanco, malato di cuore, mentre si allaccia lo stivaletto, viene in mente all'improvviso il gesto che faceva la Nonna, quando lui era bambino, e, per quella sorta di anacronismo psichico per cui cui il ricordo affettivo non coincide con il ricordo intellettuale, si rende conto a un anno dalla morte di sua nonna, che la nonna è effettivamente morta. Prima lo sapeva, però una cosa è saperlo intellettualmente, una cosa è sentirlo, mentre ora si produce la saldatura che lo induce a riconoscere un io più grande di lui. Qui c'è probabilmente una parafrasi delle parole di Agostino secondo cui Dio è "interior intimo meo, superior summo meo"7. Agostino vuol dire che Dio è più dentro di me di quanto io lo sia a me stesso e più in alto di me di quanto io possa giungere. Così è questo io più grande che affiora in Sodoma e Gomorra: "l'essere che accorreva in mio aiuto, l'essere che mi salvava dall'aridità dell'anima, era lo stesso che, parecchi anni prima, in un momento di sconforto e di solitudine identici, in un momento in cui io non ero più io, era entrato e m'aveva restituito a me stesso, giacché era me e più di me (il contenente che è più del contenuto, e veniva a portarmelo)"8. L'io del Narratore vecchio e stanco, in un momento di folgorazione, ritrova intatto l’io del passato, un io non consumato dal trascorrere del tempo. La scintilla scoppia dall'incontro dell'io attuale, un io non più proteso verso il futuro – gli manca in termini bergsoniani l'attention à la vie, l'attenzione, la tensione verso il futuro –, e questo io che si è conservato perché non era importante, perché è rimasto separato. E infatti è proprio la salvezza di ciò che è inessenziale, di ciò che è marginale, una cosa che Walter Benjamin aveva ben osservato, che costituisce il centro del nostro interesse. Per un paradosso, la centralità della vita si trova alla periferia della vita.

In un bellissimo testo di Erodoto si racconta di quando il Re dei re persiano, Cambise, conquistato l'Egitto, fa sfilare davanti al faraone vinto prima suo figlio in catene portato a morire, e il faraone resta impassibile, senza lacrime, poi la figlia destinata alla prostituzione o comunque in balia dei vincitori, e il faraone non piange; alla fine passa un vecchio cadente funzionario della reggia, con cui il faraone non aveva nessuna dimestichezza, e finalmente quest'ultimo piange9. Questo per dire che ciò che ci colpisce più da vicino non ha il potere di commuoverci, che ci vuole distanza. Secondo un vecchio proverbio cinese, "sotto il faro non c'è luce", vi sono le cose più opache, bisogna che la coscienza illumini qualcosa di distante. Così è in Proust per quanto riguarda la costituzione dell'io. Io posso trovare me stesso solo nelle cose apparentemente futili, un pavimento sconnesso, allacciarsi le scarpe, inzuppare nella tisana la madeleine, perché appunto questi io di ricambio ci danno un'illusione di eternità, che balena per un istante, ci fanno vedere che le cose non muoiono completamente, ci fanno – come ogni artista – "cittadini di una patria sconosciuta", ci rinviano a un luogo sconosciuto e sempre bramato che abbiamo desiderato ma non siamo riusciti a cogliere.

Un grande lettore di Proust, il poeta Yves Bonnefoy, ricordando Plotino, in un libro intitolato L'Arrière-pays, "Il Retro-paese", sostiene che tutti noi aspiriamo a un luogo in cui non siamo mai stati ma che è il centro del nostro essere10. Proust quando scrive "basta che un rumore, un odore, già sentito o respirato un'altra volta, lo siano di nuovo, a un tempo nel presente e nel passato, reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti"11, indica come la realtà sia più grande dell'attualità, che l'attualità non è altro per così dire che la punta dell'iceberg della realtà. Quindi il presente non è tutto, ma quello che è presente, il reale, non va opposto come si fa spesso, al possibile, perché il reale appunto è più profondo di quello che appare, è reale senza essere attuale, e ideale senza essere astratto, per cui quello che non c'è, che non si presenta non è semplicemente un'astrazione che manca, è un'idealità che ha vita. E comunque "ecco che l'essenza permanente e abitualmente nascosta delle cose s'è liberata, e il nostro vero io che (da molto tempo, a volte) sembrava morto, ma non lo era del tutto, si sveglia, si anima ricevendo il nutrimento celeste che gli viene offerto. Un istante affrancato dall'ordine del tempo ha ricreato in noi, per sentirlo, l'uomo affrancato dall'ordine del tempo"12.

Vi sono quindi tanti io, ma vi è un io vero, o – diciamo meglio – l'io vero, quello affrancato dall'ordine del tempo, viene espresso dal contatto immediato dall'illuminazione che si riceve quando uno dei tanti io di cui il destino ci ha forniti, un "io di ricambio", un io secondario incontra per un momento. Grazie alla memoria involontaria, quell'io che non si è consumato.

Voglio finire con l'episodio dei tre alberi, che è il simbolo dell'impossibilità di cogliere completamente noi stessi, del fatto che tutto il nostro passato ci insegue come i rami, braccia di legno degli alberi, che si protendono e che ci dicono che noi non siamo trasparenti a noi stessi, ma che possiamo godere - tramite l'arte ed è questo il compito della Recherche – momenti di eternità, intesi non come un tempo infinito, ma classicamente intesi (alla maniera appunto di Plotino o di Boezio e Proust conosceva bene Platone), come plenitudo vitae13. L'eternità s’incontra dunque in momenti privilegiati, in momenti d'essere in cui si rivela almeno nell'intuizione artistica la presenza di noi a noi stessi senza che tutto si consumi.

Un enigma irrisolto che allude alla felicità cui noi andiamo incontro si annuncia nel seguente passo che ci trasporta in campagna, su una carrozza, accanto al Narratore: "Avevo notato, un po' discosti dal tratto di strada a schiena d'asino che stavamo percorrendo, tre alberi che dovevano segnare l'inizio di un viale coperto e formavano un disegno su cui i miei occhi non si posavano ora per la prima volta; non riuscivo a ricordare il luogo da cui erano come ritagliati, ma sentivo che, un tempo, mi era stato familiare […]. Guardavo i tre alberi, li vedevo bene, ma dentro di me sentivo che nascondevano qualcosa su cui non riuscivo a far presa, come quegli oggetti troppo lontani che le nostra dita, allungandosi in fondo al braccio proteso, arrivano soltanto a sfiorare per un attimo, in superficie, senza afferrarne alcunché […]. Come ombre, sembrava mi chiedessero di portarli via con me, di restituirli alla vita. Nel loro gesticolare ingenuo e appassionato riconoscevo l'impotente rimpianto di un essere amato che ha perso l'uso della parola e sa di non poterci dire le cose che vorrebbe e che noi non riusciamo a indovinare […]. Vidi gli alberi allontanarsi agitando disperatamente le braccia, come se dicessero: Quello che non riesci a sapere oggi, non lo saprai mai più. Se ci lasci ripiombare in fondo alla strada dalla quale cercavamo di issarci fino a te, tutta una parte di te stesso che noi stavamo portando cadrà per sempre nel nulla"14.

Non sono soltanto le confuses paroles, le parole confuse di cui parla Baudelaire, che le cose, la natura, come i grandi pilastri delle chiese cercano di trasmetterci, è il senso di un qualcosa che attraverso la percezione si manifesta. Su questo vorrei insistere: quando si pensa a Proust si pensa soprattutto a uno scrittore dell'interiorità, ma si dimentica la grande tradizione del sensismo francese che va da Condillac a Taine, Maine de Biran compreso. L'interiorità è vuota se non si alimenta dei segni del mondo, e questo libro che ciascuno di noi scrive serve da lente d'ingrandimento per capire noi stessi, perché – diceva Proust – noi non abbiamo bisogno di presentarci come autori: la Recherche è come la lente d'ingrandimento dell'ottico di Combray, nel senso che il libro non appartiene al suo autore: "Ma per tornare a me, io pensavo al mio libro più modestamente, e sarebbe anzi inesatto dire pensando a chi l'avrebbe letto, ai miei lettori. Infatti non sarebbero stati, secondo me, lettori miei, ma lettori di se stessi, non essendo il mio libro che una sorta di quelle lenti d'ingrandimento come ne offriva a un cliente l'ottico di Combray; li avrei muniti, grazie al mio libro, del mezzo per leggere in se stessi"15.

Se c'è in Proust un messaggio fondamentale, è quello che ci offre questa lente di ingrandimento per leggere in noi stessi un exemplar humanae vitae. Anche perché se c'è una traduzione più opportuna di recherche, questa non è "ricerca", ma è, in senso platonico, "anamnesis", cioè una memoria rivolta apparentemente al passato, ma procede verso il futuro. Perché è insatura e perché si muove per così dire a zig zag, andando da una cosa all'altra, costruendo un disegno che la morte inesorabilmente spezza nel momento in cui, come si dice nel finale della Recherche, "i trampoli del tempo su cui noi siamo sospesi si allungano talmente che alla fine non riusciamo a restare in equilibrio e allora cadiamo", con la consolazione laica che non avremmo avuto un'eternità futura da vivere, ma che almeno abbiamo avuto – grazie a Marcel Proust – tanti istanti di eternità, di pienezza di vita che ci accompagnano.

 

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