LA RAPPRESENTAZIONE A-BIOGRAFICA

E L'INNOCENZA DI DREYFUS

MIMETISMO E IDENTITÀ COMPLESSA NELLA RECHERCHE*.

di

Marco Piazza

 

Salvo eccezioni, anche nel caso dei (pochi) volumi ad esso dedicati — più numerosi sono gli articoli —, il tema del rapporto di Proust con l'ebraismo è prevalentemente stato trattato come questione 'minore', o meglio con un approccio esoterico1. Recentemente, invece, Alessandro Piperno vi ha interamente dedicato un libro, dal tono brillante e di piacevole lettura, in cui questo tema è affrontato sullo sfondo di una interpretazione complessiva dell'opera proustiana2. La reticenza ad affrontare organicamente il tema, riscontrabile sia presso alcuni specialisti sia anche presso celebri interpreti dell'opera proustiana, è spiegabile forse con l'impressione che si prova di trovarsi di fronte a un rapporto ambiguo, a una sorta di contraddizione identitaria, a qualcosa che sfiora persino il politically incorrect. Aleggia sulla questione lo spirito di un possibile antisemitismo o antiebraismo proustiano, spettro a cui il libro di Piperno cerca di dare concretezza, riportandolo nell'orizzonte dell'epoca, cercandone le motivazioni filosofiche in una lettura nichilistica in chiave schopenhaueriana di Proust, una lettura che era già stata condotta in passato da alcuni interpreti e non di poco conto3, ma per la verità dagli stessi in seguito attenuata o finanche ridimensionata4.

In altra sede ho cercato di abbordare la questione del presunto antiebraismo proustiano mettendo alla prova la tesi del nichilismo della Recherche in cui quell'atteggiamento antiebraico troverebbe le sue radici5. Senza voler tornare sulla questione, accenno qui soltanto al fatto che a mio parere non si può parlare di nichislimo per Proust, almeno nei termini in cui ne ha parlato Piperno nel suo libro, perché il modello di ricerca della verità contenuto nel romanzo è più vicino a quello positivistico che a quello nichilistico di stampo schopenhaueriano e l'influenza di Schopenhauer alla fine è circoscritta entro i confini della teoria estetica di Le Temps retrouvé e pertanto, se vi è stata una fascinazione schopenhaueriana, Proust l'ha in gran parte superata6. Alla fine la verità raggiunta si condensa in una serie di leggi e non nelle essenze promesse dai momenti della memoria involontaria. Ne consegue che se il modello della ricerca proustiana non sfocia in uno "scetticismo metafisico" — formula usata da Alessandro Piperno nel suo Proust antiebreo — in cui tutto viene per così dire negato e destituito di valore, in cui tutto appare caduco e illusorio, anche il rapporto con l'ebraismo e l'apparente distacco ironico da esso che pare trasparire dal romanzo, devono essere fatti oggetto di un’interrogazione ulteriore.

Ho usato l'aggettivo 'apparente' perché sono convinto che si tratti di un'ambiguità più apparente che reale, di una contraddizione che viene meno allorché si cerchi di interrogare l'uomo e l'opera in modo che entrambi si illuminino vicendevolmente.

Una simile ricognizione può prendere le mosse dalla passione di Proust per il reale, da quella curiosità su cui ha scritto pagine folgoranti Walter Benjamin nel suo saggio su Proust del 19297. Proust è animato da una curiosità che si traduce spesso in imitazione. Egli stesso ben conosceva i potenziali rischi dell'esprit d'imitation, che può bloccare l'artista-creatore impedendogli di raggiungere la verità, il romanzo, l'opera d'arte. E tuttavia questa curiosità che anima Proust gli consente di penetrare, di conoscere nel dettaglio, le varie facce della realtà, i meccanismi della società, come una sorta di orologiaio che smonti fino alle sue più piccole parti l'orologio che ha di fronte. È possibile che anche verso l'ebraismo, ma soprattutto verso quel fenomeno dell'antisemitismo che l'Affaire Dreyfus aveva posto in primo piano nella società francese generando lo scontro tra dreyfusardi e antidreyfusardi, ossia verso i giochi linguistici e sociali prodotti dall'Affaire, Proust abbia sviluppato quella stessa curiosità analitica e mimetica. Leggo a questo proposito una pagina proustiana risalente al 1908 circa, ritrovata recentemente e resa nota da Luzius Keller due anni fa:

Cena dai Daudet. Dopo la cena chiacchiere spiritose con cui Lucien ci rivela che sta per andare, contrariamente a Léon, nell'ambiente dei Rotschild, che egli ci assicura essere rimasti, malgrado tutta la vernice aristocratica, molto ebrei. Cita come esempio uno di essi che non va mai a donne se non con quelle che si danno per quaranta soldi, con il bizzarro dispiacere di tutte le grandi cocottes. Ci parla poi con modo inaudito di porcellane giapponesi ammirate in casa del primogenito, il più ricco di tutti, che egli dice chiamarsi Alphonse. Un bel nome, dico io, per l'innamorato del Denaro, per colui che si occupa di tutti i nostri piccoli risparmi da cui setaccia letteralmente l'oro, tutti i deficit, tutti i crac, tutte le miserie. Un personaggio veramente interessante per l'artista che osasse scrivere il vero romanzo di questo tempo, il Romanzo del Denaro. A questo punto Madame Daudet dichiara bizzarramente che non vuole si dica male di un nome che è anche quello di suo marito [il padre di Lucien]8.

Un senso di fastidio s'impadronisce di noi di fronte al grossolano tono antisemita di queste righe. E compare sulla scena lo spettro dell'antiebraismo proustiano. Ma, nel momento in cui si riconosce che si tratta di un pastiche, di un pastiche Goncourt, il dubbio circa un possibile antisemitismo di Proust si trasforma in quello su un probabile antisemitismo dei Goncourt.

L'apparente ambiguità di Proust nei confronti dell'ebraismo non può però essere spiegata soltanto ricordando la passione mimetica proustiana, non può essere risolta con la passione per la realtà che faceva sì che egli si calasse nei salotti antisemiti con la stessa smania osservativa e con la stessa curiosità con cui frequentava quelli dreyfusardi.

La curiosità proustiana è insufficiente a spiegarci perché Proust, che fu un deciso dreyfusardo, anzi un militante dreyfusardo, e che non nascose questa sua posizione nel Jean Santeuil, e anche nella sua corrispondenza, nella Recherche fa assumere invece tratti grotteschi a molti personaggi ebrei e riserva un trattamento così duro a Swann morente. Quello Swann che per molti versi è un doppio del Narratore e che da ultimo è animato da una forte passione dreyfusista e sul cui volto ricompaiono tratti tipicamente ebraici.

In effetti, se andiamo a vedere, a dispetto di quella che è stata l'impressione anche di qualche fine critico, Proust fu un dreyfusista convinto e attivo e non ritornò mai sulle proprie posizioni. Sostenere, come alcuni hanno fatto, che la sua adesione al dreyfusismo abbia origini emotive e che la sua sensibilità per le sorti del capitano Dreyfus sia connessa al suo forte legame con la madre, ebrea e dreyfusista anch'essa9, invita a imboccare un sentiero pericoloso, che conduce a ritenere che questa scelta non avesse solide basi e che una successiva ritrattazione o un raffreddamento posteriore del suo sentimento siano perfettamente compatibili con essa. In realtà né la correspondance né le testimonianze delle persone che hanno frequentato Proust contengono indicazioni in questo senso10. Non soltanto il giovane Proust all'epoca del processo assistette a numerose udienze e si preoccupò attivamente, come è noto, di raccogliere firme importanti per la petizione di Zola, ma nutrì una profonda ammirazione per il maggiore Georges Picquart (colui che scoprì che la calligrafia dei documenti attribuiti a Dreyfus era quella del maggiore Esterhazy e che, benché antisemita, fu accusato di essere caduto in una trappola tesa dalla famiglia Dreyfus e poi persino di essere stato pagato da quest'ultima per scagionare il capitano), a cui nel 1898 fece persino avere di nascosto in carcere una copia di Les Plaisirs et les Jours11. Non soltanto egli si dichiara "dreyfusard incoercible et verbeux" in una lettera dell'estate 1898 a Mlle Kiki Barthaloni12, ma, dopo il processo del settembre 1899, in cui fu rivista la sentenza del '94 (che aveva stabilito la deportazione perpetua e perdita del grado) e Dreyfus condannato a dieci anni di carcere, egli prega la madre di spiegare alla femme de chambre di casa Proust e al portinaio suo marito di non averli ingannati sull'innocenza di Dreyfus, altrimenti i giudici non avrebbero accettato di rivedere il processo, decretando una pena inferiore e due di loro non si sarebbero certo espressi per la riabilitazione del capitano13.

Come si spiegano allora certe affermazioni contenute nel romanzo, come questa, apparentemente senza appello: "Ogni avvenimento, fosse l'Affaire Dreyfus o la guerra, aveva fornito altrettante scuse agli scrittori per non decifrare" il "libro interiore di segni sconosciuti", quel libro "fra tutti il più difficile da decifrare" che "è anche il solo che ci abbia dettato la realtà, l'unico "impresso" in noi dalla realtà stessa. Di qualunque idea si tratti, lasciata in noi dalla vita, la sua immagine materiale, traccia dell'impressione che ci ha suscitato, è in ogni caso la prova della sua verità necessaria"14? Oppure il fatto, ricostruito dagli studiosi di genetica testuale, che tutto un romanzo ebraico contenuto in un certo stadio dell'evoluzione della Recherche, è stato poi eliminato nelle successive versioni, scomparendo in quella finale15? E ci si può sempre e soprattutto interrogare su Swann, ebreo assimilato, discendente da un nonno convertito al cattolicesimo e da una nonna protestante, che per tanti aspetti appare come un doppio del Narratore e dunque, con le dovute cautele, dello stesso Proust, e che alla fine della vita, gravemente ammalato di tumore, diventa un acceso dreyfusardo ed è criticato dal Narratore per il suo dreyfusismo accanito, descritto come un effetto di quell'atavismo che fisiognomicamente fa persino riemergere sul volto di Swann tratti tipicamente ebraici.

Nel cuore della descrizione dell'ultimo Swann è contenuta la chiave che ci consente di sciogliere questi interrogativi. Ecco il passo:

Il dreyfusismo aveva reso Swann straordinariamente ingenuo e dato al suo modo di vedere un impulso, uno sbandamento ancor più notevole di quanto non avesse fatto un tempo il matrimonio con Odette; quel nuovo declassamento si sarebbe meglio chiamato riclassificazione e non andava che a suo onore, poiché lo immetteva nuovamente nella via dalla quale erano venuti i suoi e da cui lo avevano distolto le sue frequentazioni aristocratiche. Ma Swann, nel preciso momento in cui, tanto lucidamente, gli era concesso, grazie ai dati ereditari della sua ascendenza, di vedere una verità ancora nascosta alle persone del gran mondo, si mostrava tuttavia di una comica cecità. Rimetteva ogni sua ammirazione e ogni suo disprezzo alla prova di un criterio nuovo, il dreyfusismo16.

Proust per tutto il romanzo ha cercato di non far prendere posizione sull'Affaire al narratore-protagonista, di cui non si dice mai che sia ebreo, dunque da ritenere non ebreo, e che in precedenza solo in un’occasione, e en passant, ha preso posizione a favore di Dreyfus17 (mentre in tutte le altre si dimostra attento a non schierarsi in modo netto e a non reagire in modo da far trasparire con chiarezza i suoi sentimenti a proposito dell'Affaire), ma che qui si espone di nuovo, ribadendo la sua posizione e alludendo alla verità dell'innocenza del capitano. È questa la prova che Proust non ridimensionò mai la sua posizione sull'Affaire, restando coerente con se stesso anche all'interno delle pagine più delicate dove è in gioco il suo rapporto con l'ebraismo18.

Perché allora diventò così cauto e fece quasi di tutto per non schierarsi nella Recherche, tanto che solo con una sorta di indagine investigativa è possibile cogliere questa presa di posizione, suggestivamente definita da Antoine Compagnon nei termini di una "complicità" che il Narratore chiede al lettore rispetto all'Affaire19?

Forse perché Proust era convinto che una rappresentazione a-biografica del Narratore sarebbe stata più efficace di una in cui al protagonista facilmente si potesse ricondurre l'autore. Ciò vale soprattutto per l'ebraismo e per l'omosessualità20.

I motivi di questa scelta — mi sembra — sono anche di ordine filosofico e sono connessi a due temi che innervano la Recherche: lo statuto della verità, i modelli di conoscenza, da un lato e l'identità del soggetto dall'altro.

Quella di Proust è una ricerca della verità che passa per il rovesciamento delle abitudini, delle convenzioni, delle convinzioni morali21. Lo stratagemma di un narratore quasi trasparente serve a Proust per introdurci nel rovescio di quelle abitudini, di quelle convenzioni, nei territori abitati dalla crudeltà e dalla sofferenza, in quelle passioni umane così ben descritte e analizzate nel romanzo, in una sorta di viaggio relativistico che ha per valore non relativo proprio quello della passione per la verità, per la conoscenza, per la traduzione della realtà in un'opera d'arte che non tradisca il reale, ma ne rispetti per così dire la prismaticità.

D'altro canto la scelta del narratore trasparente, di un protagonista quasi neutro, e che incarna certi aspetti del mimetismo proustiano, suggerisce un modello di identità complesso e molteplice. Il soggetto è composto da tanti io successivi, in cui esso passa per successive identificazioni, e che si ricompone retrospettivamente in una visione stereoscopica che ha luogo nella psiche grazie al modello offerto dalla memoria involontaria22.

Proust attraverso questo modello di io vuole forse alludere al pericolo delle facili e riduttive identificazioni, ancorando l'io a questa o a quella faccia della propria complessa identità. L'ebraismo e soprattutto la passione dreyfusista costituiscono una di queste facce. Il modello Swann è rifiutato perché la sua concezione snobistica dell'arte non lo porta alla creazione artistica e perché nel momento in cui egli si avvicina alla realtà in modo finalmente diretto, attraverso il suo coinvolgimento nell'Affaire, commette l'errore di leggere tutta la realtà con l'unico paio di lenti del suo dreyfusismo.

Nella ricerca della verità che è anche una ricerca di se stessi in cui si rovesciano le proprie abitudini e convinzioni, in cui si guarda dietro alle proprie maschere, ci si spoglia delle identità rigide e si colgono i rischi connessi alle militanze. Tuttavia c'è un io di cui Proust avrebbe fatto difficilmente a meno, ed è quell'io filosofico che lo ha guidato nel suo viaggio di ricerca e di scrittura, quell'io cui teneva molto e su cui ha scritto:

Fra quei personaggi interiori che compongono il nostro individuo non sono i più appariscenti a essere essenziali. In me, quando la malattia avrà finito di atterrarli l'uno dopo l'altro, ne resteranno ancora due o tre più duri a morire, in particolare un certo filosofo che non è felice se non quando ha scoperto tra due opere, fra due sensazioni, una parte comune23.

Nel prosieguo del passo Proust afferma che l'ultimo a resistere, in verità sarà probabilmente quello che Duncan Large ha efficacemente definito "le petit bonhomme barométrique"24, una sorta di io minimale, segnato da un tratto ereditario, la cui vittoria sugli altri io altro non è forse che un omaggio all'anti-intellettualismo tipico dell'autore e un cligne d'oeil alle teorie sull'ereditarietà in voga all'epoca.

Torna